La mia prima volta come “Professionista”

Federica

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Essere professionista o diventarlo?

Come nasce e cresce un professionista? Molte volte, forse troppe i professionisti parlano e scrivono del loro lavoro clinico solo dopo aver fatto molta esperienza. Il che porta i neo-laureati in Psicologia a vedere i professionisti come un modello da seguire, ma senza la minima indicazione su “come seguirli”. Vorrei oggi scrivere qualcosa su questo. Qualcosa sulla prima volta, la prima volta in cui tu, ormai Psicocoso, ti trasformi da studente a figura di sostegno di un altro essere umano.

Se avete fatto una terapia ricordate bene l’ansia che precede il primo colloquio con uno Psicologo, uno che era un estraneo fino ad allora. Ora vi dico un segreto, per noi Psico-cosi forse è anche peggio e vi spiego subito il motivo. Ogni paziente ha una sola prima volta, noi nella nostra carriera di prime volte ne abbiamo svariate. Io vi assicuro che ogni volta che un nuovo paziente entra nel mio studio la sensazione, nonostante le competenze acquisite, è sempre la stessa. Mi preparo ad “accogliere”, ma non so ancora quale sarà il modo migliore di farlo visto che ogni persona è diversa.

Quando ti laurei in Psicologia, la maggior parte degli Psico-cosi non ha esperienza di una stanza di terapia. Questo perchè non è obbligatoria la terapia per acquisire la laurea in Psicologia. Quindi quello che noi Psico-cosi sappiamo su come si svolge una terapia, è solo ciò che fino a quel momento abbiamo letto sui libri. Libri anche vecchiotti, passatemi il termine.

Dato che io avevo già iniziato una Psicoterapia, sapevo bene di cosa si trattava, o perlomeno conoscevo la sensazione di vestire i panni del paziente. Potevo quindi comprendere appieno il sacrificio emotivo che stavo chiedendo ai miei pazienti perché quell’emozione dell’aprirsi all’estraneo l’avevo a mia volta provata.

Terapia è emozione sia per il professionista che per il paziente?

Ecco ciò che uno Psicologo pensa e prova la prima volta in cui veste il ruolo contrastando il giudizio e l’idealizzazione del paziente del momento.

Ricordo quel giorno come fosse ieri, eppure sono passati 11 anni. Dopo la laurea presa molto presto, ho svolto subito il mio anno di tirocinio, che a quell’epoca si svolgeva subito dopo, non prima della laurea. Ho preso l’abilitazione e dato che era ormai più di un anno che avevo iniziato la mia terapia personale, ho deciso di buttarmi. Ho deciso di indossare il vestito della Professionista che negli anni avevo faticosamente cucito, senza però averlo mai provato.

Iniziata la scuola di specializzazione in Psicoterapia ho iniziato a fare un lavoretto per pagarla. Proprio in quel posto mi avevano riservato una stanza che io ho potuto sistemarmi come meglio credevo. La stanza era lunga e stretta, ma colorata ed accogliente. Un tavolino in un angolo e due sedie uguali, insomma lo stretto necessario per chi come me, stava iniziando. Ora sradicherò il vostro primo dubbio. Non tutti i terapeuti hanno nel proprio studio un lettino, non per mancanza di cura nei dettagli, ma semplicemente perché non tutti gli approcci alla Psicoterapia sono uguali.

Nel mio caso, la Scuola di Specializzazione che ho frequentato, suggerisce un “setting” (una stanza di terapia) in cui siano presenti due sedie uguali. Il terapeuta solitamente non si pone dietro la scrivania, in modo che essa non diventi un muro (metaforico) tra lui e il paziente. Detto fra noi, ho utilizzato poche volte la scrivania. Quando l’ho fatto è stato solo perché già dal primo contatto telefonico con il paziente, ho percepito che avesse un disturbo grave. In quei casi mettere i “confini” (come si dice in gergo), è stato auspicabile e necessario a permettere un lavoro proficuo e la creazione di un rapporto terapeutico sano.

La sedia del cambiamento

Quella prima volta ricordo di essermi seduta su quella che avevo deciso sarebbe stata la mia sedia e ho cercato di percepire il mio corpo. Mi sono messa comoda, come ci aveva spiegato il professore, ma mentre mi rilassavo e prendevo coscienza di me stessa, è suonato il citofono.

Sono saltata, il cuore come tutto il resto del mio corpo ha iniziato a sobbalzare. Sono corsa al citofono, ho aperto e mi sono presentata stringendo forte la mano del mio paziente e facendo un gran sorriso. Dall’altro lato c’era un sorriso imbarazzato, ma disponibile ad accogliermi. Il cuore mi batteva talmente forte che ho temuto che non sarei riuscita a sentire quello che il mio paziente avrebbe avuto da dirmi. Ho accompagnato il mio paziente in stanza, anche se le mie gambe tremavano, l’ho fatto accomodare e mi sono seduta.

Quello è stato il momento in cui qualcosa è cambiato in me, quello è il momento in cui ho capito molte cose. Ho capito che l’importante era che mi lasciassi andare a quell’ambiente, a quei 50 minuti, alla persona che avevo di fronte, e che proprio per lei mi trasformassi in un contenitore di ciò di cui mi avrebbe voluto parlare. Quella persona, le sue difficoltà, il suo dolore era il regalo che quella persona mi stava facendo. Dopo aver finito la terapia e aver accompagnato il paziente alla porta, mi sono rimessa seduta su quella sedia. Ho respirato profondamente ed ho ringraziato quella sedia e la consapevolezza che un’ora prima aveva fatto di me una Psicologa. Ero inebriata da quella sensazione che la terapia mi aveva lasciato.

Il dono del Professionista

Da quel momento e negli anni a seguire ho sempre visto ogni paziente come “fosse Babbo Natale” giunto nel mio studio con un regalo. Il regalo era una storia, la sua storia, i suoi problemi, le sue emozioni, il suo mondo insomma. Da quel momento ho iniziato ad accettare i regali, sia quelli belli che quelli brutti perché non sempre i pazienti ti raccontano i loro successi! Il più delle volte ti portano i loro drammi, la loro tristezza, il loro dolore e ciò vi assicuro non è sempre facile per me.

Qualche volta le loro storie mi lasciano uno strascico di malinconia e decido di non lasciarle a studio, ma di portarmele a casa per dar loro un significato più completo. Alle volte ci sono delle storie che rimbombano anche dentro di me e non me ne vergogno, anzi, vado fiera della mia emotività.

Quello è stato un gran giorno. Quello è stato il giorno in cui, a livello psicologico ho capito verso dove stavo andando. In quel preciso giorno ho capito che il mio obiettivo era vivere la vita di tutti i giorni con la stessa sicurezza e sensazione di controllo che avevo provato nel mio studio. Sono uscita da quella stanza cresciuta, trasformata da una Psicocosa ad una Psicologa, avevo trovato il mio lavoro, il mio posto nel mondo, o per lo meno, avevo trovato il mio posto in quello studio, che già era qualcosa. Quel giorno io ho smesso di cercare di diventare una Psicologa ed ho iniziato ad essere una Psicologa e questo ha iniziato a fare la differenza nella mia vita.