La relazione terapeutica

Federica

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Con il passare degli anni e l’ampliamento degli interessi per le dinamiche interpersonali, oltre che intrapsichiche, le prospettive di tipo materno/relazionale hanno contribuito ad ammorbidire lo stile che guidava i classici orientamenti psicoanalitici e cognitivo/comportamentali, fino ad influenzare anche gli attuali sviluppi dell’AT (Cornell & Bonds-White, 2001).
Pur tenendo presenti le teorie dell’attuale panorama AT, nella concezione di relazione terapeutica che influenza il mio modo di lavorare con i pazienti, mi rifaccio soprattutto a Berne (1962). Egli ha descritto i processi relazionali che si sviluppano in seduta mediante tre diverse fasi dell’alleanza. Durante la prima, il paziente valuta il terapeuta come un G potenziale; nella seconda, il B del paziente divorzia dal proprio G e accetta l’A del terapeuta – all’inizio percepito erroneamente come G – come un sostituto; nella terza, il B del paziente accetta il proprio A come un sostituto dell’A del terapeuta.
Tali processi, sono stati messi ben in evidenza anche da Weiss (1993). Come ho potuto verificare nella mia esperienza, soprattutto nei primi due stadi descritti da Berne (1962) per il processo relazionale, sono implicati aspetti transferali messi in atto dal paziente mediante scambi caratterizzati da transazioni incrociate, ulteriori o tangenziali; solo nell’ultima fase dell’alleanza la relazione tra terapeuta e paziente diventa A.
Partendo dal principio che ogni paziente che chiede di essere sostenuto nel suo percorso di crescita abbia un A almeno in parte funzionante, la concettualizzazione della relazione terapeutica in AT si basa su quello che viene definito il doppio Okness. Quindi, fin dalla prima seduta mi predispongo all’incontro con un altro A disponibile a lavorare con me alla pari, pronto a rivedere e verificare in maniera continua lo stato del suo percorso durante le diverse tappe del processo di trattamento. Nella stanza di consultazione sono di fronte ad un paziente con cui mi considero alla pari, che si pone nei miei confronti come controparte attiva; mio compito è semplicemente quello di aiutarlo a capire come finora si è bloccato dal risolvere da solo i propri problemi (Novellino, 1998).
Il professionista che vuole creare un rapporto profondo con il proprio paziente non si dovrebbe quindi sostituire a lui, bensì fungere da testimone e facilitatore del processo (McClure Goulding & Goulding, 1979); più egli sarà attivo, coinvolto e pronto a fornire carezze da una posizione Io +, Tu +, più sarà facile per il paziente reagire intensamente (Woollams & Brown, 1978). In questo modo il terapeuta proporrà una relazione aperta, orientata al processo e sintonizzata empaticamente con il mondo esperienziale del paziente, offrendo un terreno fertile in cui avranno luogo modificazioni dalle potenzialità curative (Rogers, 1977).
L’esperienza emozionale intersoggettiva tipica della relazione terapeutica, sfrutta la comunicazione emozionale creativa che avviene al suo interno, per raggiungere la consapevolezza dei modelli inconsci espressi nel comportamento non verbale del paziente e condurlo a sviluppare una capacità di comprensione e gestione di ciò che continua a ripetere in tutte le sue relazioni. In questo nuovo contesto il paziente svilupperà una crescente capacità di percepire sé stesso in sintonia con il terapeuta mentre, simultaneamente, percepirà in modo maggiore il senso della sua soggettività separata dall’analista stesso (Leone Guglielmotti, 2007).
Ovviamente la fiducia e la stima su cui si baserà col tempo il rapporto terapeutico è anche alla base della sopportazione e del superamento di alcuni passaggi fondamentali e dolorosi del processo di cura. Il paziente per merito del rapporto sano creato col terapeuta e della modificazione delle sue strutture interiorizzate, potrà scoprire di avere la possibilità di entrare in relazione con se stesso e con gli altri in modo diverso da quello copionale. Questo processo permetterà ad entrambi, terapeuta e paziente, in quanto A alla pari, di crescere e cambiare grazie proprio al processo di sostegno che insieme portano avanti (Little, 2006). Nello spazio terapeutico, quindi, è come se paziente e terapeuta parlassero oltre i contenuti manifesti, dando vita ad una comunicazione emotiva creativa centrata sull’unicità delle rappresentazioni di entrambi. Quando si raggiunge una relazione di tale qualità, essa stessa, diventa “la cura” e permette di riorganizzare la conoscenza relazionale implicita sia del paziente che dell’analista (Leone Guglielmotti, 2007).
Ho trovato interessanti gli studi di Cornell e Bonds-White (2001) che pur riconoscendo i punti forza delle teorie in voga negli ultimi anni, che denotano la relazione come fondamentale fattore curativo del processo evoluzione del paziente, ritengono che più esse si concettualizzano sull’empatia e/o l’attaccamento, più si introduce un grave squilibrio nel processo terapeutico. Svalutando il ruolo del paziente come A consenziente, gli autori ritengono che ci si ponga in contrasto con i principi filosofici alla base dell’AT, negando la validità del concetto del doppio Okness (Cornell & Bonds-White, 2001). Avendo fornito Berne (1966) degli interventi terapeutici rivolti all’auto-osservazione del paziente, compito del terapeuta è quindi quello di modificare la struttura intrapsichica e il funzionamento del paziente, non offrire una relazione correttiva che lo curi mediante l’introiezione del rapporto terapeutico (Cornell & Bonds-White, 2001).
A tal proposito nonostante l’alleanza terapeutica si sia negli anni, dimostrata (Horvath & Symonds, 1991) il fattore comune con il maggior effetto sulla terapia – sia per quanto riguarda l’efficacia che l’efficienza del trattamento stesso (De Luca, 2004) – l’empatia, la sintonizzazione e l’attaccamento, quando non sono accompagnati da una visione alla pari del paziente e tendente alla sua presa di consapevolezza, non risultano sufficienti per condurlo ad una modificazione duratura del proprio comportamento disfunzionale (Cornell & Bonds-White, 2001).
Ho riscontrato che la focalizzazione del lavoro terapeutico sulla relazione stessa, insieme all’analisi degli Stati dell’Io costituisce a tutti gli effetti uno dei modi che possono essere utilizzati in campo clinico per affrontare il bisogno di relazioni che deriva dalla perdita del contatto interno con alcune parti del Sé (Erskine, 1980). Attraverso una ricerca di informazioni sui bisogni relazionali che alcuni pazienti ritengono insoddisfatti, su come reagiscono e, soprattutto, su come possono imparare a soddisfare i loro bisogni relazionali attuali (Erskine & Trautmann, 1996), loro possono riuscire, sentendosi accolti e accettati, ad analizzare insieme a me le dinamiche che mettono in atto nei rapporti nel qui ed ora. Per merito della buona relazione instaurata tra me e loro potremo analizzare, valutare e gestire i momenti di divergenza e gli acting out messi in atto in sede di processo, trovando nel paziente un buon osservatore di se stesso che ha usato il nostro rapporto come un buon esempio da cui partire per la modificazione dei suoi comportamenti riguardo al prossimo.